Star Wars: Jedi Survivor | la recensione | PS5

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Jedi Fallen Order è stato un po’ il Rogue One dei videogiochi a tema Star Wars: una piacevole sorpresa che non brillava per originalità, ma che era riuscita a distinguersi offrendo un’esperienza solida e senza fronzoli. Per contro, Jedi Survivor è un po’ il Rise of Skywalker dei videogiochi di Star Wars: spettacolare, certo, ma anche caotico e confusionario, e imbottito di elementi il cui posto nella saga è perlomeno dubbio.

Uscii deluso dalla sala dopo Episodio 9, e deluso metto giù il controller dopo Jedi Survivor, come videogiocatore, come appassionato di Star Wars e come consumatore, anche se non riesco a disprezzare il gioco di Respawn quanto disprezzai il film di JJ Abrams. Provo sentimenti contrastanti nei confronti di questo sequel, che ha qualità innegabili e difetti che non posso ignorare: cercherò di spiegarveli al meglio che posso.

Come il suo predecessore, Star Wars: Jedi Survivor è un’avventura action che prende in prestito una generosa manciata di elementi dal “genere” soulslike (le grandi mappe con sezioni interconnesse e una rete di scorciatoie da sbloccare, i punti di salvataggio che permettono di recuperare punti vita ma che rigenerano i nemici, il sistema di combattimento basato su parry e schivate e sulla guardia da rompere in stile Sekiro), mescolandoli con un’approccio all’esplorazione in stile Uncharted, con puzzle ambientali e una sana dose di climbing.

Ritroviamo Cal Kestis – accompagnato dal fido robottino BD-1 – cinque anni dopo gli eventi del primo capitolo. È ancora impegnato nella sua lotta contro l’Impero, ma il gruppo che si era formato alla fine di Fallen Order si è sfaldato, e Cal si è unito a una nuova crew di ribelli con la quale organizza rischiosi atti di resistenza. Dovrà però presto riunirsi con i suoi vecchi compagni di viaggio per far fronte  a una nuova minaccia, che ha le sue radici in una vicenda vecchia di secoli.

Jedi Survivor si presenta subito come una produzione dalle proporzioni più imponenti rispetto a Fallen Order, che all’epoca si era proposto come il più umile dei tripla A, con le sue animazioni grezze e il level design che nascondeva con furbizia le proprie limitazioni. Da un punto di vista dell’impatto visivo, Survivor è niente meno che notevole: i character model sono eccezionali, l’illuminazione impressiona pur senza essere mai troppo stilizzata, e i panorami offerti dai diversi pianeti che siamo chiamati a esplorare sono spesso mozzafiato. La direzione artistica non è sempre ispirata, e funziona sempre meglio quando prende a prestito elementi di design dalla saga cinematografica, ma il livello generale rimane molto alto.

Nelle numerose cinematic la messa in scena è più che competente e fa un buon lavoro nel mantenere coinvolgente una narrativa che non sempre riesce a catturare l’attenzione, anche se si sente la mancanza di spettacolari set-piece giocabili come quella che apriva il primo capitolo.

Rispetto a Fallen Order, è evidente l’intenzione di aprire il mondo di gioco, con mappe estese, missioni secondarie ed elementi gestionali che strizzano l’occhio agli open world – ma la differenza con il primo capitolo non è quella che c’è tra Elden Ring e Dark Souls, per capirci. È un open world “light”, limitato in particolare a uno solo dei pianeti esplorabili, il lussureggiante Koboh.  

Sulla carta c’erano tutte le premesse per un sequel che prendesse ciò che di buono c’era nel suo predecessore e lo espandesse e lo rifinisse fino a farlo diventare il gioco di Star Wars perfetto. D’altronde Fallen Order era l’inizio ideale per un franchise: abbastanza intrigante da suggerire la necessità di un sequel, e abbastanza imperfetto da disinnescare i dubbi di chi voleva rimanesse un unicum. Eppure Jedi Survivor non è un gioco migliore di Fallen Order sotto nessun aspetto se non quello della confezione grafica. Non è un gioco migliore, e non è un gioco di Star Wars migliore.

La narrativa, intrisa di un misticismo blando e francamente fuori posto, procede senza impennate, senza mai proporre sviluppi sorprendenti e, soprattutto, senza mai impattare il gameplay in modo significativo (esclusa una lunga sequenza che inizia attorno alla quindicesima ora della main story, un climax chiaro e potente che arriva contemporaneamente troppo tardi per stupire e troppo presto per lasciare davvero il segno). In Fallen Order, grazie a missioni come quella su Kashyyyk, si aveva il senso di star partecipando a rivolgimenti di portata galattica. In Jedi Survivor, invece, Cal sembra impegnato più in una lunga e poco creativa caccia al tesoro in stile Codice da Vinci che in una disperata guerra interplanetaria contro una temibile dittatura. 

Non aiuta il fatto che i villain siano assolutamente incolori e privi di qualsivoglia fascino e che oltretutto siano protagonisti delle boss fight più deprimenti e facili della storia dei soulslike. Esclusa l’ultima, che perlomeno propone un minimo di sfida, le altre – poche – boss fight si distinguono per la mancanza di immaginazione nel design, sia del nemico, che dell’arena, che del combattimento in sé. È molto più probabile rimanere bloccati su un encounter con nemici generici, che a volte compaiono in quantità tali e con un assortimento di attacchi talmente caotico che risulta difficile applicare quel tipo di strategia metodica che contraddistingue il genere. 

Fallen Order riusciva a replicare discretamente l’approccio “souls”, offrendo sfide ben calibrate in cui la morte di Kal era quasi sempre il risultato di un errore ben identificabile. In Jedi Survivor ci si ritrova a volte presi in un fuoco incrociato di spade, blaster, lanciamissili, lanciafiamme, animali saltellanti e droidi volanti che sembra il risultato di uno sviluppatore stanco e disinteressato che piazza nemici casuali in punti casuali del level editor. 

Possiamo scegliere di combattere questi manipoli di nemici con una varietà di stili diversi: c’è la classica spada laser singola, la spada a due lame, la doppia spada, la spada singola ma più lunga e con i tubi di scappamento alla Kylo Ren e, per qualche motivo, il blaster, che – sarò sincero – non ho mai usato. Ognuna di queste configurazioni ha il proprio skill tree, che però risulta piuttosto limitato e non offre grande profondità per ogni singola arma. 

Non è l’unico ambito in cui Jedi Survivor predilige la quantità alla qualità. La varietà di elementi di gameplay introdotti e appena accennati è francamente irritante, a partire dagli hub multipli: questa volta, oltre alla navicella Mantis, avremo come base operativa anche un bar su Koboh, che saremo chiamati a popolare di npc incontrati durante il cammino. Tra questi, una giardiniera che può su richiesta riempire di piante il tetto dell’edificio, una cacciatrice di taglie che vende una varietà di skin per customizzare l’aspetto di Cal, e un robot, Zeta, parte integrante della storia, ma anche venditore di skill e vernici per personalizzare BD-1. Il bar e la navicella condividono molti degli stessi npc, il che crea situazioni abbastanza buffe – lasciamo Greez e Bode, un nuovo membro della crew, sulla nave, impegnati ad aggiustarla per un imminente viaggio, percorriamo pochi metri, entriamo nel bar e li troviamo entrambi seduti al bancone come fossero lì da sempre. 

L’uso e la personalizzazione di questi hub world, così come l’esplorazione dei mondi aperti, cade inevitabilmente in secondo piano a causa di una narrativa che procede con urgenza e che non inventa mai circostanze per cui potrebbe essere giustificato prendersi una pausa e andare in giro a completare secondarie o a crescere piante in giardino. 

Anche tra gli elementi di gameplay si nota una certa bulimia. In un tentativo di rendere più eccitanti le parti dedicate al platforming si è aggiunto l’immancabile rampino, che in un gioco il cui protagonista è un Jedi non sembra la soluzione più creativa o interessante. BD-1 ha una nuova abilità legata a un misterioso materiale magico, ma il suo utilizzo nel mio playthrough si è reso necessario forse cinque volte in tutto, forse meno. Lo stesso vale per la possibilità di cavalcare creature, che, considerando che è stato aggiunto anche un sistema di viaggio rapido tra punti di meditazione, non è particolarmente utile. 

Veniamo ora alle questioni di performance, di cui si è parlato molto a partire dall’uscita. Ho giocato Jedi Survivor su una PS5 nuova di zecca, una piattaforma che secondo ogni metrica dovrebbe bypassare i problemi che si sono rilevati nella versione PC. E devo segnalare che anche su Playstation, anche in modalità performance, il nuovo titolo di Respawn gira in maniera inaccettabile, con un framerate letargico e ballerino, frequenti istanze di screen tearing e un bel po’ di pop-up delle texture. Specialmente nella sezione iniziale su Coruscant e nel mondo principale, l’open world di Koboh, si naviga ben al di sotto dei 60 fps promessi, con costanti frame drop. Inutile dire che si tratta di un altro elemento che dissuade dall’esplorare liberamente i pianeti, dato che muoversi nel mondo in queste condizioni è tutt’altro che piacevole. Personalmente non vedevo l’ora di infilarmi in un tunnel, una grotta, o un edificio, all’interno dei quali la performance migliorava sensibilmente. È assolutamente probabile che le prossime patch risolvano il problema, ma parliamo comunque dell’ennesimo lancio insoddisfacente di un tripla A da parte di team di sviluppo e publishing che dovrebbero garantire esperienze senza macchia.

Jedi Survivor è un deciso passo indietro rispetto a un primo capitolo che, nonostante alcune evidenti mancanze, era riuscito proporsi come un più che valido action-adventure, e che faceva intravedere, per i giochi a tema Star Wars, un ritorno ai fasti dell’era Lucas Arts. Il secondo capitolo, che comunque riesce a raggiungere vette di spettacolarità notevoli, e che si fonda sulle basi solide di generi ormai ben rodati, non può che sembrare un’occasione sprecata. Almeno in parte.

 




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