The Last of Us 2: recensione e video recensione (PS4)

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Giocato su Playstation 4 PRO

Poco prima di concludere l’epilogo di The Last of Us 2, pensavo di iniziare questa recensione, che forse sarà più un flusso di pensieri, con una lunga serie di insulti un po’ gratuiti – ma sicuramente liberatori – verso quella manica di stronzi che hanno fatto comunella lasciando uno zero tondo tondo su Metacritic al titolo in questione. Probabilmente queste brutte parole le dilazionerò comunque inconsapevolmente strada facendo, ma appena giunto ai titoli di coda ho capito che questi personaggi hanno già troppi problemi per conto loro. Immaginatevi una persona così sciocca, reazionaria ed analfabeta che sente l’esigenza di far sentire la sua voce in pubblico soltanto perché un racconto non è come se lo aspettava; soltanto perché esiste una storia che parla anche di omosessualità, di diversità, di quanto siamo tutti – dannatamente – uguali; soltanto perché non vuole essere a tutti i costi consolatoria, non vuole essere una strizzata d’occhio ai videogiocatori più ignoranti, non vuole a tutti i costi accontentare. Ecco, pensate a questo povero, piccolo, essere umano ed immaginate come possa essere la sua vita. Sparare sulla croce rossa è davvero un’operazione di cattivo gusto, ma probabilmente lo farò lo stesso.

Prima di parlarvi del gioco, chiaramente tralasciando totalmente ogni tipo di spoiler, faccio una premessa dovuta. Vi chiederete perché parliamo di The Last of Us 2 di VR ITALIA, e vi assicuro che i motivi sono diversi; come sulle testate di videogiochi tradizionali si parla ogni tanto di VR, anche su VR Italia vorrei – saltuariamente – parlare anche di videogiochi tradizionali. Uno al mese se è tanto, parliamoci chiaro, ma vorrei affrontare quella manciata scarsa di opere che hanno un’importanza clamorosa non solo per il medium videogioco, ma anche per la narrativa contemporanea e la cultura pop. Il titolo di Naughty Dog fa sicuramente parte di queste categorie, e – sinceramente – mi fa anche piacere parlarne. È anche strano che io ne parli a diversi giorni dall’uscita, ma purtroppo Sony non ci ha mandato una copia review, e quindi ne parleremo anche tenendo conto delle sopracitate critiche mosse da una community sempre più fastidiosa ed imbarazzante.

Facciamo un piccolo passo indietro: il primo The Last of Us è stato un titolo clamoroso, uno dei pochi videogiochi recenti capaci di dimostrare come anche questo medium è in grado di raccontare storie splendide e ben scritte, che nulla hanno da invidiare agli altri media narrativi, anzi. Il racconto “zombie”, perché in fondo di questo si tratta, non vedeva nemmeno al cinema un’incursione così profonda, empatica e coinvolgente dal 28 Giorni dopo di Danny Boyle; e dall’opera del regista inglese era passata una decade piena. Il racconto di formazione di Ellie ed il tormentato percorso di Joel riuscirono sette anni fa a scuotere il mondo dei videogiochi come pochi altri durante quella generazione, presentando inoltre uno dei finali più coraggiosi, densi e straordinari della narrativa contemporanea. Tuttavia The Last of Us aveva un solo, grosso, problema. Il videogioco è un medium che deve comunicare – non necessariamente soltanto – ma anche attraverso il gameplay; tant’è che la grammatica che definisce un’opera videoludica e la differenzia dagli altri linguaggi è semplicemente quella delle meccaniche di gioco. Senza gameplay non esiste videogioco, ed in quanto tale più ha rilevanza all’interno dell’operazione, più il videogioco acquisisce di per sé valore. Inoltre, tematica delicata e spesso tralasciata sia da critica che autori: più il discorso che traspare attraverso il gameplay e quello che si palesa attraverso la narrativa sono allineati, più ci si muove verso la direzione giusta.

Il gameplay del primo capitolo di The Last of Us non era assolutamente insufficiente, ma non risultava già ai tempi originale o profondo, e soprattutto non era decisamente allineato con il discorso legato alla scrittura narrativa. Uccidere decine e decine di persone in The Last of Us risultava meccanico, vuoto ed a tratti superficiale; facendo perdere un po’ di intensità ad una scrittura decisamente sopra la media. Con l’ultimo atto le cose cambiavano, e l’estasi del momento finale acquisiva di forza anche grazie a quello che avevamo fatto con le nostre mani, prendendo le veci di un Joel che oltrepassava il punto di non ritorno, oramai sul baratro e svuotato da ogni logica. Quello che però pesava era il fatto che la narrativa si muoveva solo attraverso le scene d’intermezzo, e quasi mai attraverso quel maledetto gameplay. The Last of Us rimane tutt’oggi una pietra miliare del videogioco, nonostante le sue evidenti lacune; ma quando una sceneggiatura è scritta così bene è necessario fare un passo indietro ed accettare il pacchetto completo.

Con The Last of Us 2 ero sinceramente preoccupato. Mi chiedevo cosa potesse ancora avere da dire sul discorso, temendo prendesse una direzione più convenzionale che andava a rompere un po’ quell’idea infantile, ma spesso inevitabile, di opera unica, alta, indimenticabile. The Last of Us 2 mi ha invece fatto cambiare decisamente idea, dimostrando per l’ennesima volta quanto è brillante la penna di Neil Druckmann e quanto in realtà l’umanità abbia fallito. Devo dire la verità: la prima metà del gioco mi stava piacendo, ma non mi stava stupendo; non mi stava incantando come molti momenti del primo capitolo, perché non stavo cogliendo il sopracitato discorso. Ad un certo punto però succede una cosa; una cosa semplice, innocua in termini assoluti e che abbiamo visto in moltissimi videogiochi, ma – chiaramente senza svelarvela – quest’ultima ha cambiato radicalmente il mio approccio a The Last of Us 2. Quello che era un seguito solido, ma forse a tratti un po’ formulaico, diventa finalmente un discorso; un discorso serio, sentito ed emozionante, che solo chi è troppo piccolo o sciocco per comprenderlo non può apprezzarlo.

Questo ci porta a due digressioni. La prima è che il pubblico dei videogiochi è chiaramente ancora troppo immaturo, sessista, reazionario, ignorante ed incompetente rispetto al suo stesso medium di riferimento, per cui quando le cose non vanno nella direzione che si aspetta piange, sperduto in territori sconosciuti e quindi ostili. La seconda, figlia della precedente ma legata al discorso in termini più ampi, è il fatto secondo cui – per alcuni – il videogioco deve necessariamente essere apolitico. Questa, oltre ad essere l’affermazione più idiota ed irritante della storia dell’umanità – ma che si può applicare sfortunatamente anche ad altri contesti – è anche una frase estremamente pericolosa. Mi spiegate, per favore, in quale cazzo di modo un prodotto che non è scritto da un’intelligenza artificiale, può essere apolitico? La politica è semplicemente il pensiero dell’uomo, l’insieme dei valori, del bagaglio e delle battaglie che un essere umano si porta dietro fin dall’infanzia. In che modo un prodotto creato dall’uomo può spogliarsi del punto di vista del suo autore? Ah, perché forse pensate che uno sparatutto in cui si massacrano orde di mostri con una varietà sconsiderata di armi sia scevro dalla politica? Vi svelo un segreto, amici miei: non lo è. Non lo è ed, oltretutto, non è nemmeno detto che quest’ultimo sia necessariamente reazionario; ma a seconda della narrativa, del tono ed addirittura del gameplay è possibile capire qualcosa – se non altro – del suo autore. Questo è un discorso pericoloso perché, vi giuro, ho visto gente urlare “via la politica dalla musica!”, “via la politica dal cinema”. E cosa ci rimane, quindi? Perché questa necessità di svuotare totalmente il contenuto – che poi è comunque una scelta politica – da tutto quello che ci circonda? Vi giuro che non riesco a pensarci da quanto questo atteggiamento mi fa male. E non fa male soltanto a me, fa male all’arte, a tutte le forme di comunicazione ed alla società più in generale; fa male nel momento in cui chi produce intrattenimento cerca in qualche modo di andare in contro ad una community miope, che tra le urla di chi non vuol comprendere, potrebbe portarci ad un futuro ancora più insignificante. Sembro un po’ troppo apocalittico per parlare soltanto di un videogioco, lo ammetto, ma il videogioco – tanto quanto la letteratura ed il cinema – è in grado di formare, informare e spingerci verso il pensiero critico. E quando questo rischia di scomparire, non ci resta altro che sperare in un futuro in cui si chieda invece sempre di più una presa di posizione, sempre di più di raccontare sé stessi attraverso l’opera, anche nel videogioco.

The Last of Us 2 è stato definito da qualche tonto come un gioco forzatamente politico, che si erge ad agenda della sinistra americana più progressista, e che vuole trasformare i poveri bambini in omosessuali liberali ed anarchici. Chiaramente è tutto nella testa di questa povera gente, poiché non solo il titolo di Naughty Dog non è questa cosa, ma se devo dirla tutta non ha neanche quella spinta e quel coraggio destabilizzante necessario ad imporre – giustamente – una propria visione così incisiva del mondo.
Tuttavia The Last of us parte II – ripeto – che un discorso lo fa, ed è tanto forte quanto ben dosato; ma arriva per l’appunto con i suoi tempi e le sue modalità.

Le prime ore in compagnia di The Last of Us 2 sono letteralmente incantevoli; un concentrato di quotidianità realistica e tenera, che riesce a dipingere un’umanità alla ricerca di un riscatto, nonostante tutto. Quando però il titolo inizia ad ingranare per entrare nel vivo delle sue meccaniche di gioco, ci ritroviamo a tutti gli effetti di fronte allo stesso – identico – gameplay della parte uno. Questo non è un problema in termini assoluti: ci sono molti grandi titoli che non inventano assolutamente nulla sul fronte delle meccaniche, ma è anche vero che nello stesso anno di Half Life: Alyx, tornare ad una fruizione ludica vecchia e stantia fa un po’ specie. Chiaramente sono stati fatti dei passi avanti sostanziali per quanto riguarda l’immediatezza dei controlli, le animazioni ed il gunplay, ma ciò che è cambiato davvero, e che eleva finalmente anche una formula così banale all’eccellenza, è che il fulcro del gameplay ed il racconto risultano finalmente allineati. Se nel primo The Last of Us i nemici erano carne da macello senza nome, in questo caso ogni vita che spezzeremo porterà a delle conseguenze. Non che la storia cambi a seconda dei nostri meriti, o demeriti, in battaglia; ma uccidere qualcuno in The Last of Us Parte II ci impone anche di sentire i suoi amici urlare, chiamarlo per nome, avvicinarsi con le lacrime agli occhi per tentare di salvargli la vita. Questo è un enorme cambiamento nella formula di gioco, che rende gli scontri tesi e tragici, ma soprattutto è in grado di raccontarci qualcosa soltanto attraverso la loro esecuzione. Se vi sembra poco, evidentemente non avete davvero idea di cosa sia un videogioco, e di quanto sia importante scegliere il medium giusto in funzione di una storia, ma vi assicuro che questa volta Naughty Dog ha fatto centro, nonostante tutto quello che scinde dal combattimento sia rimasto pressoché invariato.

La nota più infelice riguardo al gameplay è per l’appunto il fatto che l’esplorazione, il puzzle solving, e la struttura del level design – non sono stati toccati, ed io – sinceramente – non mi accontento più. Così come non mi accontento più degli open world copia-incolla in cui ripulire d’inerzia una mappa apparentemente piena d’attività, non mi accontento più delle avventure story driven a corridoio che tendono a ripropormi sempre le stesse, identiche, attività. Il problema esacerba poi col fatto che The Last of Us 2 tenta, un po’ come gli ultimi due capitoli di Uncharted, di restituire l’impressione d’essere molto più esteso in termini di level design rispetto a quello che è realmente. Se tuttavia Uncharted 4 e The Lost Legacy ci riuscivano in maniera più convincente, qui non sarà raro tentare una strada forzatamente chiusa da cespugli, macchine o mura improbabili, che vanno un po’ a smorzare l’entusiasmo dato da un’immedesimazione sempre ai massimi livelli. Per chi parte già a mille dopo questa affermazione, ripeto che non sto valutando mediocre il gameplay di TLOU 2 in termini assoluti. Nel suo insieme la parte “videogioco” è solida, grazie soprattutto ad una serie di scontri memorabili ed una messa in scena fuori da ogni logica, ma anche qui i limiti di game design frenano un po’ la definizione di “videogioco perfetto”, che in molti si sono lasciati scappare.

Se volete un paragone, vi riporto un esempio che faccio spesso. Fumito Ueda è uno dei game designer più brillanti della storia dei videogiochi, e questo perché è uno dei pochi che riesce sempre ad allineare al cento per cento il tema con le meccaniche di gioco. Ecco quindi che il legame che si instaura tra la creatura ed il bambino in The Last Guardian si sviluppa quasi esclusivamente attraverso il gameplay, e quando arriviamo al finale, sentiamo che quella non è la loro storia, ma la nostra. Ueda se ne frega delle convenzioni, se ne frega di rendere il prodotto fruibile anche agli imbecilli, e rimane coerente dall’inizio alla fine dando vita – sostanzialmente – soltanto a pietre miliari del linguaggio. Un altro esempio recente è quel bistrattato Death Stranding di Kojima che, oltre ad essere un capolavoro immortale, è così integralista nelle sue scelte di game design, che è impossibile non rimanere estasiati di fronte ad un’operazione del genere; a meno che non si abbiano né gli strumenti, né la volontà, di capire cosa l’opera stia cercando di fare. Ecco in TLOU 2 questa cosa c’è, ma risulta a conti fatti un po’ annacquata da un’impostazione vecchiotta che tenta di accontentare un po’ tutti in termini di gameplay, risultando sicuramente efficace, ma a cui manca davvero quell’ultimo sprint per ergersi a capolavoro anche in termini di design.

Quello che invece l’opera di Neil Druckmann fa in modo oggettivamente straordinario ed inflessibile è il lavoro sul racconto e sul montaggio. La sceneggiatura di The Last of Us 2, dopo una prima metà più convenzionale, esplode in un’idea di racconto dietro l’altra, con un colpo di scena clamoroso e soprattutto coraggioso che – chiaramente – ha fatto imbestialire alcuni dei fan più stupidini. Non ne parlerò, ma quando ci giocherete capirete sicuramente di cosa sto parlando. Da quel momento in poi il titolo prende una piega inaspettata e molto più coinvolgente, sviscerando un tema doloroso quanto necessario, che diventa gradualmente sempre più incisivo, fino ad arrivare ad un terzo atto che lascia davvero senza parole.
Incredibile anche il sopracitato montaggio, che svela sapientemente i flashback più importanti con una grazia rara, e soprattutto un ritmo che riesce ad immergere il giocatore realmente dentro al mondo di gioco. In molti si sono lamentati di alcuni cali di ritmo che tendono ad annacquare la narrativa; io dico che non è così, ed anzi difendo quelle frenate improvvise ma necessarie. È vero che lo script non si dipana scoppiettando a tutto gas dall’inizio alla fine, ma forse – e mi rivolgo a voi detrattori – non avete idea di come un racconto che funziona debba esser strutturato. Se parti a mille e procedi a mille ti ritrovi per forza di cose di fronte a tre problemi: devi continuare necessariamente ad accelerare fino alla fine, devi comprimere il racconto per non risultare stucchevole, e soprattutto, quando arrivi ai momenti chiave della storia, rischi di non farli percepire in quanto tali. Druckmann fa qui invece tutto quello che ogni penna consapevole dovrebbe fare: allenta il ritmo attraverso un’immersione più ambientale che narrativa, per colpirti poi con quadruplo della potenza durante turning point del racconto, scanditi da beat narrativi dosati sempre con un’eleganza invidiabile.

Di fatto la sceneggiatura di The Last of Us 2 riesce a raggiungere – se non superare – la qualità strabiliante del capitolo precedente, anche questa volta prendendo strade difficili e non gradite a tutti, ma proprio per questo di grande valore. A tal proposito, vi ricordo che anche il finale del primo capitolo non piacque a tutti, per poi diventare col tempo ed all’unanimità, uno dei più alti momenti della storia del medium.
Questo, sfortunatamente, può esser dovuto anche ad una mal interpretazione dell’ultimo atto da parte di alcuni utenti non troppo svegli, che non hanno quindi apprezzato elementi del racconto in questo secondo capitolo, chiamati fin dal primo e sinceramente inevitabili.

Lo script è poi sorretto da un impianto visivo clamoroso, che si contraddistingue soprattutto per una regia ed una messa in scena che prende le distanze dalla narrativa popolare americana, per avvicinarsi ad uno stile che strizza l’occhio al cinema europeo; fatto non solo di silenzi e dilatazione temporale, ma anche – soprattutto – di intensità, di volti, di violenza consapevolmente esibita. Quest’impatto visivo si vede poi sorretto da un motore che lascia davvero a bocca aperta, nonostante sia evidente come l’opera di Naughty Dog potrebbe rendere ancora meglio con un eventuale porting su console di prossima generazione. Il team americano ha, secondo una mia personalissima speculazione, lavorato senza alcuna rinuncia per offrire l’impatto grafico più importante sul mercato, per poi andare a ridimensionarsi secondo i limiti tecnici di Playstation 4; ed è per questo che sono sicuro che su PS5, The Last of Us 2 vedrà finalmente la sua forma più matura.

A prescindere dagli elementi più tecnici, il lavoro sul character design è forse quello più lodevole ed impressionante. I volti di The Last of Us 2 sono realistici ed empatici, lontanissimi da quell’idealizzazione ridicola di uomini e donne da copertina che hanno monopolizzato il videogioco fino a qualche tempo fa. I protagonisti del gioco hanno i difetti che ha l’essere umano; non hanno un volto perfettamente simmetrico, hanno la pelle rovinata, un po’ di doppio mento, uno sguardo che lacera il cuore. Un design dei personaggi così intenso, probabilmente, non si è mai visto in tutta la storia dei videogiochi, e già soltanto per questo motivo TLOU2 è un’opera che lascerà un’impronta importante nel futuro del linguaggio.

Indescrivibile anche tutto il lavoro sul sonoro, a partire da un sound design da pelle d’oca ed una colonna sonora minimale, e quindi perfettamente in linea con tutto il resto. Inutile dire che le interpretazioni in lingua originale scaraventano nello spazio profondo il lavoro sulla lingua italiana; in linea con quello che è – di fatto – il doppiaggio; e quindi posticcio, fastidioso ed in grado di spezzare il realismo con una manciata di frasi urlate tra personaggi a pochi centimetri di distanza. Su questo rimango intransigente: ogni opera che mantiene un valore narrativo sopra la media, va necessariamente fruita in lingua originale. Capita, ogni tanto, di trovarsi davanti ad un doppiaggio italiano decisamente sopra la media, com’era successo ad esempio per Days Gone, ma in questo caso le interpretazioni nella nostra lingua rimangono piatte ed impersonali, appiccicate sopra come vuole il nostro pubblico, senza sforzi eccessivi.

Ora, abbiamo capito che TLOU 2 è un prodotto dal gameplay convenzionale ma solido e da una narrativa strabiliante ed estremamente coinvolgente. Quello che vi starete plausibilmente chiedendo è se il gioco è adatto a voi, e se – di fatto – stiamo parlando di un capolavoro. Difficile dirlo, in entrambi i casi.
Nel primo direi che se vi piacciono le storie, in generale, non potrete che amare questo secondo capitolo di uno dei prodotti più influenti del secolo, e potrebbe farvi storcere il naso soltanto se siete così ottusi da pensare che un videogioco debba essere banalmente la messa in scena delle vostre fantasie. Per quanto riguarda il secondo quesito, devo dire che non so dirlo con certezza. Forse, come per tutte le opere che rimangono nella storia, lo capiremo solo tra alcuni anni, quando il titolo avrà effettivamente avuto un impatto culturale pari o superiore all’opera precedente; ma se dovessi scommettere, direi proprio di sì. The Last of Us parte II non è un gioco perfetto, poiché continua a risultare un po’ deficitario nell’elemento grammaticale proprio del videogioco, ma ha al suo interno dei momenti così importanti, brillanti ed indescrivibili – anche di gameplay – che tutto il resto passa necessariamente in secondo piano.

Ora, ricollegandomi al discorso d’apertura: secondo voi, di cosa si ricorderà il mondo? Di quei quattro suprematisti dell’alt right, probabilmente incel, ignoranti, distruttivi ed arrabbiati, con la loro bavetta colante alla bocca, la loro faccia storpiata dalle smorfie della cattiveria gratuita, soli, tristi; oppure si ricorderà di un prodotto coraggioso, coinvolgente, unico, capace di smuovere le coscienze collettive come pochi videogiochi sono riusciti a fare fino ad oggi? Io la risposta credo di conoscerla, e ne sono abbastanza convinto.

The Last of Us 2 è disponibile sul Playstation Store dal 18 Giugno 2020 al prezzo di 69,99€.

 




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